GLI INTELETTUALI DI FRONTE ALLA CULTURA DI MASSA

 "Apocalittici" o "Integrati"

Un'importante distinzione è stata introdotta da Umberto Eco nel 1964: quella tra apocalittici e integrati.
Nel linguaggio di Eco, "apocalittici" sono quegli intellettuali per nulla disposti a venire a patti con la cultura di massa, difensori di una concezione aristocratica del sapere. L'intellettuale apocalittico disprezza le letture poco impegnate, i rotocalchi, i programmi televisivi e radiofonici, ma soprattutto non accetta l'idea che la cultura o, in generale, la conoscenza possano essere patrimonio di molti. 
Per l'apocalittico la cultura di massa è "anticultura": in questo senso il suo atteggiamento di rifiuto è rivolto, a ben guardare, alla società di massa e a ciò che essa rappresenta a livello politico e/o ideologico.
Per converso, gli "integrati" sono convinti che la civiltà di massa consenta un allargamento della base sociale della cultura e che produca un sapere che forse per la prima volta nella storia è davvero universale, condivisibile da tutti i membri di una società.
Questo costituisce, a giudizio dell'intellettuale integrato, una risposta sufficiente a tutte e critiche che si possano muovere alla cultura di massa. 
Ma l'integrato non si limita a difendere o a giustificare la società di massa e la sua cultura in linea teorica, ma ne utilizza anche gli strumenti, servendosi dei mass media e scrivendo libri divulgativi, oppure non disdegnando né i canali radiofonici e televisivi, né la rete per farsi conoscere.
Apocalittici e integrati sono naturalmente due ideal-tipi: la posizione concreta del singolo intellettuale è spesso una commistione di questi due atteggiamenti, che talvolta tende a inclinare maggiormente verso l'uno o verso l'altro. La contrapposizione ha comunque una validità euristica, in quanto identifica due visioni diverse, in un certo senso alternative, della cultura e del suo ruolo all'interno della società.


Italiaanse schrijver Umberto Eco, portret.jpgUmberto Eco



Le prime reazioni contro la società di massa 


Già a cavallo tra Ottocento e Novecento, filosofi come Friedrich Nietzsche e psicosociologi come Gustave Le Bon espressero la loro preoccupazione rispetto alla crescente rilevanza sociale delle "masse", da loro intese come moltitudini sprovviste di autonomia intellettuale e facilmente manipolabili dall'esterno, incapaci di fare valere altre prerogative se non quella della consistenza numerica. 
Una possibile definizione della "massa" in opposizione ad altre forme di aggregazione si trova nel saggio Massa, pubblico e pubblica opinione del sociologo statunitense Herbert Blumer. Secondo Blumer, mentre il pubblico è un gruppo di persone che si costituisce intorno a un determinato tema o problema, e che apre un dibattito per confrontare le diverse idee su come affrontarlo, la massa è un aggregato eterogeneo, privo di autocoscienza e di identità, incapace di organizzazione collettiva. Per la distanza spaziale che intercorre tra i suoi membri e la condizione di anonimato che caratterizza ognuno di essi, la massa si distingue anche dalla folla, con la quale condivide invece l'assenza di strutturazione e la condotta non razionale. 
La disamina forse più spietata della società di massa, vista come decadenza inesorabile della civiltà occidentale, si trova nel saggio La ribellione delle masse del filosofo spagnolo José Ortega y Gasset. In quest'opera lo studioso, preoccupato di spiegare la deriva populistica della storia europea di inizio Novecento (che si esprime, a suo giudizio, sia nel proliferare dei regimi totalitari sia nella nascita del sindacalismo), cerca di individuare il "tipo umano" a essa corrispondente e lo identifica nell'uomomassa figlio della civiltà industriale, privo di valori e di memoria storica, preoccupato solo di difendere il proprio benessere materiale. 
Si noti che la "massa" a cui si riferisce Ortega non si identifica con le classi popolari, ma costituisce una realtà trasversale al corpo sociale, nata da quell'appiattimento generale delle condizioni e delle idee che, nelle società occidentali contemporanee, omogeneizza gli uomini al di là delle tradizionali distinzioni di nascita, ceto, censo e così via.

Herbert Blumer






















Le analisi dell'industria culturale nel secondo dopoguerra


Nel secondo dopoguerra, ovvero con l'esplosione della società di massa, le riflessioni sulle sue caratteristiche, e in particolare sui modelli culturali in essa imperanti, si fanno più approfondite.
Nel 1947 Theodor Adorno e Max Horkheimer, esponenti della Scuola di Francoforte, scrivono a quattro mani il saggio intitolato Dialettica dell'Illuminismo, un testo volto a indagare le degenerazioni del razionalismo occidentale - di cui l'Illuminismo settecentesco è figura emblematica ,nella moderna società industriale. Secondo gli autori la ragione novecentesca non è più, come nei secoli passati, lo strumento di dominio della natura, ma si è trasformata in un organo di controllo e di asservimento degli esseri umani, piegati alle esigenze del sistema politico ed economico di cui fanno parte.
È proprio in questo contesto che i due filosofi introducono, per la prima volta nella storia del pensiero, il concetto di "industria culturale", caricando però tale espressione di un'accezione fortemente negativa: essi intendono infatti riferirsi al complesso dei prodotti e delle strategie di distribuzione nati dalla colonizzazione economica della sfera culturale, ovvero a quel fenomeno tipico della società industriale avanzata che finisce per asservire la cultura a scopi che le sono estranei: controllo sociale, cattura del consenso, promozione di stili e modelli di vita funzionali a una civiltà consumistica. 
L'industria culturale, proseguono Adorno e Horkheimer, si avvale soprattutto dei canali della comunicazione di massa (giornali, tv, cinema) e mette sul mercato prodotti standardizzati, qualitativamente mediocri, costruiti in modo da impoverire nel consumatore l'immaginazione e il senso critico, lasciandogli però l'illusione di essere sovrano delle sue scelte e dei suoi gusti. 
Benché l'industria culturale sia un fenomeno tipico della società di massa, per Adorno e Horkheimer essa non può essere definita "cultura di massa": questo appellativo genererebbe infatti l'erronea convinzione che si tratti di qualcosa che scaturisce in modo spontaneo dalle masse stesse, in opposizione alla cultura d'élite. L'individuo della società di massa, invece, è decisamente eterodiretto , soggetto passivo di una cultura che non è lui a elaborare, ma che piuttosto lo "crea" a misura dei propri imperativi e valori.

La spettacolarizzazione della violenza nella società contemporaneaTheodor Adorno e Max Horkheimer


Un ridimensionamento della posizione fortemente pessimistica dei Francofortesi viene da parte del filosofo e sociologo francese Edgar Morin con il saggio del 1962 L'esprit du temps  (Lo spirito del tempo), comparso nella prima traduzione italiana con il titolo L'industria culturale.
Morin parte dall'assunto secondo il quale la cultura di massa va compresa, più che demonizzata: per questo motivo non deve essere analizzata con le chiavi di lettura della cultura "alta", tradizionale, ma letta "dall'interno", come parte integrante della società in cui viviamo. "Cultura", sostiene Morin, è un termine relativo; in ogni società coesistono più culture: la cultura nazionale, la cultura religiosa, la cultura umanistica, ciascuna delle quali costituisce un corpus di simboli, miti e norme che orientano la vita e il pensiero delle persone. Anche la cultura di massa rientra in questo contesto e interagisce con le altre culture: essa può dunque accogliere in sé i loro elementi, ma anche permearle dei propri contenuti fino al punto di modificarle e corroderle.
Benché la cultura di massa non sia l'unica cultura del XX secolo, tuttavia secondo Morin essa ha una prerogativa peculiare: è per sua natura cosmopolita e planetaria, e in questo senso si presenta come qualcosa di radicalmente nuovo rispetto a tutte le altre, ovvero come la prima cultura veramente "universale" nella storia dell'umanità. 

Edgar Morin 

 

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